Anagni, 16 ottobre 1801

Caro Ausonio,

vi scrivo da questa città del meridione dello Stato Pontificio, tappa assai probabile anche dei tuoi viaggi tra la città eterna e la tua dimora d'Oltresele, in cui mi trovo a causa di una serie di eventi che si sono addensati nel corso di un periodo di tempo quanto mai breve. Ma ora, senza por tempo in mezzo, mi accingerò a narrarvi gli eventi.


Avevamo intrapreso il viaggio da Bagnolo alla volta di Roma, tutti allegramente a bordo della carrozza del conte, sui cui sportelli campeggiava lo stemma avito del nostro anfitrione. Siffredo e il BBB a cassetta, io il conte e l'O' Riordan all'interno della vettura.
Il conte espresse il desiderio di fermarsi sulle colline senesi per fare visita ad un suo amico di vecchia data, nonché fornitore di Chianti; il barone Bartolomeo Credenza. Appena prima di partire ebbi la ventura di ricevere la vostra ultima missiva, e il viaggio fino al borghetto di residenza del barone si consumò tra frizzanti lazzi ai danni del Valli e della sua teutonica spasimante.
Non immaginate nemmeno cosa tirò fuori il La Rocca!
Cose degne delle peggiori caserme, ma in fondo atte al divertimento di cotanta gioventù in viaggio di piacere. Giungemmo dunque alla casa del Credenza, una dimora di campagna di tutto rispetto, costruita con quella cura che solo i sudditi del Granducato sanno instillare nei loro lavori di edilizia. Non vi dico il mio stupore quando fummo accolti dalla servitù in lacrime e dalla sorella del barone già in gramaglie.
Ella, la povera baronessina Gianna, piangeva come una fontana, fiumiciattoli di calde lacrime per il fratelluccio Bartolomeo. In parole povere, cos'era mai accaduto? Il barone era stato rapito. Credetemi, Ausonio, ma giammai prima d'allora vidi il conte Raffaello così vicino alle lagrime. Immediatamente ci premurammo, anche grazie al notevole sangue freddo del Siffredo, a reperire informazioni sul fattaccio. In breve, interrogando i servi e qualche popolano, risalimmo allo stemma posto sulla carrozza dei rapitori: un pipistrello antropomorfo! Ci volle
poco, grazie alle conoscenze araldiche del conte, per capire che il responsabile del vile rapimento, altri non era che Francesco "Ciccetto" Sbocciato. Forse l'avrete di già sentito nominare. Egli è un gentiluomo di Sua Santità, titolo che con ogni probabilità il Pontefice gli ha elargito non
essendo a conoscenza delle sue malversazioni. Ma andiamo per ordine. La residenza del malvagio Pipistrone (così egli viene chiamato a causa di quando, da ragazzo, cadde dal dorso di un cavallo fermo, provocando l'ilarità degli amici) è nella città di Anagni. Il conte baciò con ardore la mano della dama Gianna (che lui curiosamente distorce in "damigiana") e con voce ferma e
stentorea disse: "Presto, miei giovani amici! Ad Anagni, ad Anagni!"
Ce ne partimmo dunque così, tra le grida di giubilo e di incoraggiamento dei villici. Il BBB fumava con voluttà la sua pipa, Siffredo distribuiva a destra e a mancina ammiccanti sguardi alle mogli e alle figlie dei lavoranti del contado. Arrivammo dunque alfine ad Anagni e, grazie ai buoni uffici del La
Rocca, in breve il servizio informazioni delle altrui spose ci informò della località di nostro interesse. Ad un primo sopralluogo, le impressioni furono delle peggiori: un'antica fortezza di pietra pareva pressoché inespugnabile, mentre il pesante portone di quercia rinforzato da grosse travi in ferro
rappresentava ben più di un banale ostacolo. Ci recammo in un'osteria per mangiare un boccone e discutere la questione. Il conte, affranto per aver promesso alla sua Damigiana la liberazione del fratello, di fronte a cotanta difficoltà cercò rifugio nel vino. Io pensavo a qualche sortita che avrebbe
però potuto risolversi in uno spreco di coraggio e in un possibile spargimento di sangue nostro.
Venne alfine, come una luce della provvidenza, una voce a confortarci, in un italiano stentato: era l'O' Riordan. Egli prese la parola e, imperiosamente, disse: "Soltanto un suddito del Regno di Napoli a capodanno può confezionare ordigni più potenti di un sovversivo irlandese! Datemi ciò che vi
chiedo, al resto penserò io.". Dando opportune indicazioni, il BBB si recò dallo speziale e se ne tornò con alcune sostanze, io e il conte andammo dal carbonaio ad acquistare del carbone, e infine il tutto venne dato in consegna all'irlandese che iniziò a lavorarle. Alla fine, in un involto di carta simile
a una grossa palla, c'era il prodotto del lavoro di Michael. Vi lascio immaginare il giubilo del conte, che vedeva così riaprirsi spiragli di speranza di poter accontentare la baronessa Credenza. Già che c'era da attender la sera ci divertimmo nel dibattere su un nome da dare all'ordigno. In vostro onore,
poiché qui voi siete spesso nominato e portato in gran considerazione, lo battezzammo come "pallone di giocatore argentino di pallacorda di origine argentina, sicuro fuoriclasse in forze ad una squadra dell'Oltresele", per gli amici P.D.G.A.D.P.D.O.A.S.F.I.F.A.U.S.D.O.
Ebbene, stavamo terminando di pasteggiare quando si udì un gran trambusto provenire da fuori, proprio nella piazza antistante. Ci avvicinammo all'uscio per capire cosa stesse accadendo, e vedemmo arrivare la carrozza con il sinistro simbolo del pipistrello antropomorfo. Subito udimmo urla quasi terrorizzate dei villici:
"A 'nvedi, sta ad arrivà er turpe Pipistrone!"
"Si salvi chi può!"
"Portate al riparo armenti e danari!"
e via discorrendo.
Non ci volle molto a capire di chi stessero parlando: lo sportello della vettura si aprì e ne uscì una specie di scrofone umano, dalle gote enfiate e dagli occhi sprizzanti fame... Di quella fame, voi m'intendete, che comprende tutto: cibo, soldi, donne, vino, e a giudicar dalla mole, cibo, cibo, cibo,
cibo e cibo. Ci ritraemmo per evitare di dar troppo nell'occhio ma ben lieti di aver capito, casomai ne avessimo avuto necessità, chi fosse il rapitore. Il turpe Pipistrone, ahinoi entrò nella locanda, e noi cercammo quindi di non dare troppo nell'occhio.
"Tu... Sì, dico a te, maledetto oste, mannaggia alla miseria!"
"Prego, ordinate, eccellentissimo."
"'Na coda a' vaccinara e du' bucatini, che tanto paga er Papa, sarebbe a di'
voartri poveracci!"
"Come vossignoria illustrissima desidera."
"Desidera, desidera, embè? Che tte devo di' de ppiù? Io magno, tu cucini, e er
popolo paga!"
Detto questo sprofondò le guance in una grassa risata. Davanti a tanta tracotanza pagammo, uscimmo e ci dirigemmo in un boschetto poco distante dal palazzaccio che era il nostro obiettivo. Quando giunse la notte, con la luna fortunatamente coperta da spesse nubi, l'O' Riordan entrò in azione. Ci
tenevamo pronti a entrare in azione a nostra volta, quando udimmo il boato dell'ordigno: ci lanciammo verso la coltre di fumo che, diradandosi, mostrò uno squarcio nelle possenti mura. Il grido di battaglia del conte si udì, tra le urla di dolore di quanti, all'interno della fortezza, erano rimasti feriti dai calcinacci scagliati dovunque dalla potenza della deflagrazione:
"All'assalto, per madama Damigiana!"
Tenevo nelle mani due pistole, e la mia sciabola tintinnava al mio fianco. L'O'Riordan ci raggiunse dal lato destro della fortezza armato di stiletto e pistola, mentre il BBB con una curiosa arma bianca di origine esotica da lui chiamata "machete" e il La Rocca con un fucile si unirono alla carica guidata
dal conte, che brandiva minaccioso il solo fiasco di ferro. Vi risparmio i dettagli della carneficina. Dovemmo uccidere qualche riottoso, ma i più si diedero alla fuga. Il rischio fu compensato dalla fortuna: la fortezza era difesa infatti da un pugno di uomini per nulla avvezzi a qualcosa che andasse
oltre le vessazioni di qualche povero contadino, e tutti si diedero alla fuga non appena trovarono un varco. L'edificio era ormai in nostra mano e ci rimaneva solo da cercare il buon Credenza prigioniero.
"Malnati, mo' ve manno tutti ar Creatore!" sentimmo urlare da una feritoia. Partì un colpo diretto al conte e tutti già ci predisponevamo a pregare per la sua anima, quando si udì un rumore secco: il fiasco aveva deviato il colpo. In un batter di ciglia mettemmo le mani sul colpevole: inutile che vi dica che si trattava del Pipistrone.
Non appena fu disarmato divenne mansueto come un agnellino. Ci indicò subito la cella del barone che, una volta liberato, fu un profluvio di ringraziamenti che suonarono ancor più graditi poiché pronunziati con quella dolce cadenza del Granducato. Il conte chiese (ed ottenne) di essere lasciato solo in una cella con il Pipistrone, ben legato, e il proprio fiasco. Una notte intera vi rimase
dentro, e di più non mi domandate, ché ancor son gentiluomo.
Tornati che fummo in città il popolo si guardò bene dal mal giudicarci, anzi: vino gratis pel conte, mogli e figlie pel La Rocca, e cibo in quantità per noi tutti! Ma a breve converrà a tutti che noi si levino le tende. Prima una capatina in Toscana e poi dritti a Roma. Quanto al Pipistrone, per ora ci
seguirà, poscia deciderem che farcene.
Attendo vostre nuove presso la dimora del barone Credenza.
Cordialmente vi porgo i miei rispetti